L’omosessualità è un modo di cantare?

La più prestigiosa rivista italiana di musicologia ha pubblicato un intervento di due giovani musicologi sul rapporto tra omosessualità e opera lirica. Li abbiamo intervistati.

La più importante rivista italiana di musicologia, Il saggiatore musicale, nel gennaio 2001, ha pubblicato un lungo saggio intitolato: L’omosessualità è un modo di cantare? Gli autori sono Emanuele Senici e Davide Daolmi. Il primo insegna Storia della musica alla Oxford University, il secondo,è ricercatore a contratto alla statale di Milano.

L’articolo è una vera novità nel campo degli studi gay in Italia. Quaranta pagine fitte fitte discutono, sulla base di una bibliografia impressionante, il rapporto tra opera e omosessualità. La prima parte del saggio esaminala rivoluzione operata dai queer studies sulla musicologia americana. C’è un piccolo excursus su cosa sia o non sia queer, come è nato e come ha potuto ottenere, almeno negli USA, l’attuale fortuna. La seconda parte organizza in successione cronologica i vari aspetti affrontati dai diversi contributi, ricreando così una sorta di storia fittizzia dell’opera in chiave gay.

Tante sono le domande che vengono poste, e che fino a ieri, sarebbero state considerate o poco serie o poco utili.Si parla un po’ di tutto: soggetti equivoci, travestimenti, castrati, amicizie, ma anceh questioni biografiche o legate alla committenza, eroi, miti e personaggi che diventano parte dell’immaginario gay, circoli e salotti più o meno privati.

Non vengono nemmeno trascurate le possibilità offerte da una lettura delle opere in chiave gay.

La terza parte dell’articolo guarda, con un approccio sociologico, alpubblico gay che va all’opera, alle sue nevrosi e alla sua capacità di condizionare lo spettacolo operistico.

Dopo questo saggio la musicologia italiana dovrà fare i conti con tutto questo. E infatti la novitànon è tanto nell’aver preso sul serio e vagliato criticamente una serie di opinioni in parte già note sull’opera e i gay – dai travestimenti con ammiccamenti omosessuali all’identificazione nella callas di molte “melochecche” – la novità è nell’essere apparsi con questi argomenti su una rivista accademica, ambito culturale che fino ad oggi si è tappato le orecchie di fronte all’omosessualità.  Pubblicare uno studio come questo è in qualche modo l’affermazione che tale fenomeno esiste.

Attraverso tali riviste poi, poco lette dal grande pubblico ma diffusissime fra gli studiosi, passa il cambiamento culturale, si allarga il sapere e la conoscenza di una nazione, si affinano gli studi, si scrivono tesi di laurea e si aprono dibattiti destinati a raggiungere, rielaborati, anche al grande pubblico. Non é cosa da pocoessere riusciti a operare questo primo passo. E’ un segnale forse che qualcosa sta cambiando anche in Italia.

Ci spiegate innanzitutto cosa studia la musicologia?
EMANUELE SENICI La musicologia sta alla musica come la storia dell’arte sta alla pittura, alla scultura, all’architettura. Un musicologo è chi studia la musica. Noi abbiamo una approccio prevalentemente storico, ma c’è chi si occupa di acustica, di teoria, di musica popolare, sia folk che pop, di musica non-occidentale (gli etnomusicologi), e cosi’ via.
DAVIDE DAOLMI Se si considera poi che ormai la musica è quasi tutto, suoni rumori, silenzi, e che la musicologia si occupa di quel suono e di quanto gli gira intorno, beh non mi viene in mente qualcosa di cui la musicologia non possa almeno marginalmente occuparsi. Ma questo forse confonde le idee…

Come vi siete appassionati alla materia?

ES Diciamo pure che di solito i musicologi sono stati aspiranti musicisti che hanno capito in tempo di non avere sufficiente talento o interesse per far carriera, ma passione sufficiente per volere rimanere nel ramo, e si sono rivolti alla storia e alla teoria: noi non facciamo eccezione. (ride)
DD Io volevo fare architettura ma sarei dovuto restare a Milano e mi sarei bruciato l’occasione di uscire di casa, così già che studiavo composizione in conservatorio ho pensato di iscrivermi a Musicologia, che nell’86 si poteva fare solo a Bologna o Cremona. Alla fine ho scelto Cremona dove l’anno successivo si sarebbe iscritto anche Emanuele.

Vi siete conosciuti lì?

DD No. Anche se ci eravamo intravisti nei corridoi di scuola. Pensa, ci siamo laureati con lo stesso relatore e ciascuno di noi ha pubblicato il suo primo libro con lo stesso editore ma questo non è bastato a farci incontrare. È stato poi un convegno bolognese e l’articolo su opera e omosessualità che ci ha messi in contatto.
Articolo galeotto?
ES (ride) Ero sicuro che ci avresti fatto questa domanda. Comunque no, incontro puramente professionale. Davide poi è un nazista quando si tratta di lavorare. Però ci siamo conosciuti meglio, ci stimiamo…
DD …E ci vogliamo bene, cosa che contraddice molti luoghi comuni. Sai il detto che vuole perennemente nemici donne, preti e finocchi. (ride)

Quindi, come è nato il vostro saggio L’omosessualità è un modo di cantare?
ES Stavo studiando per il dottorato alla Cornell University, negli Stati Uniti, e assistevo allo sviluppo degli studi su omosessualità e musica nelle università americane: una parte di me voleva spargere subito la voce in Italia, l’altra inventava mille remore. Fu il direttore del «Saggiatore musicale», Giuseppina La Face Bianconi, cui avevo accennato della faccenda, a spronarmi, ma da solo non me la sentivo. Allora chiesi a Davide se voleva collaborare: ci conoscevamo poco, ma sapevo dei suoi interessi per i gay studies e il Seicento, che bilanciavano i miei sull’Ottocento. Il grosso del saggio lo scrivemmo a Oxford, dove nel frattempo mi ero trasferito, nell’estate del ‘99.
DD La cosa divertente è che Emanuele prima di propormi la collaborazione aveva già preparato il terreno, citando un mio articolo su «Babilonia» a Lorenzo Bianconi che oltre a essere marito di Giuseppina La Face è nientemeno che il direttore del Dipartimento di Musica e Spettacolo di Bologna. Il ‘professor’ Bianconi, che per me era (ed è) una sorta di studioso-mito ammirato e venerato, un giorno mi incontra a un convegno, mi prende da parte e mi chiede di questo articolo e dei miei interessi su musica e omosessualità. Che potevo fare? Ho finto nonchalance e professionalità. Poi quando Emanuele mi ha chiesto di collaborare per me non c’è stato alcun problema.

Nel saggio fate un esplicito coming out con queste parole: «D’altra parte ci pare almeno opportuno dichiarare che il nostro punto di vista, oltre a essere collettivo (e quindi necessariamente mediato), è contemporaneamente italiano, maschile e gay». Perché vi è sembrato opportuno farlo?
ES Non c’è dubbio che il saggio abbia anche intenti politici in senso lato, se pur modesti. Parliamo di omossessualità perché vogliamo che se ne parli, anche nelle aule dei dipartimenti universitari di musicologia, e vogliamo che se ne parli perchè siamo gay: non potevamo non dirlo. Il rapporto tra chi studia e scrive la storia, anche quella della musica, e gli oggetti di questo studio è poi molto complesso, ma si inganna chi crede che l’identità sessuale dello studioso non c’entri: c’entra eccome, anche se quasi sempre in modi subconsci e obliqui.

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DD E poi guarda, quando avevo pubblicato un precedente articolo su «Civiltà musicale» (che per la verità non è stato molto letto), quei pochi che l’hanno commentato si sono tutti più o meno alambiccati a capire se ero gay o meno. Siccome siamo buoni, abbiamo deciso di liberare dalle ambasce i nostri lettori e dirglielo subito, così almeno si tranquillizzano.

Come hanno reagito i vostri amici e i vostri colleghi alla dichiarazione: applausi o fischi?
DD Sul dichiarare pubblicamente la nostra omosessualità nessuno ha fatto commenti, almeno con me, e nemmeno me ne sono stati riferiti. Però questo ha lasciato spazio al dibattito sui contenuti dell’articolo che si è già rivelato assi vivace.
ES Per quanto mi riguarda invece sono arrivati alcuni applausi da colleghi inglesi e soprattutto americani, da altri il silenzio. Dall’Italia ancora nulla dai colleghi, applausi e un po’ di sconcerto dagli amici.

Ma sono molto i musicologi gay dichiarati?
DD In Italia nessuno, almeno ufficialmente. Fra i nostri coetanei l’omosessualità di molti non è né un mistero né un problema, ciò non toglie che sia le generazioni precedenti che le attuali continuano a evitare la ricerca su questi aspetti. All’estero è diverso…
ES Bisogna distinguere nettamente i musicologi gay dichiarati che non si occupano di musica e omosessualità, che sono legioni, dai gay che se ne occupano, che sono pochi ma buoni. Tra i nomi di spicco negli Stati Uniti posso citarti Philip Brett, un po’ il padre di questi studi e uno dei fondatori del Gay and Lesbian Study Group della Società Americana di Musicologia, e tra le studiose almeno Elizabeth Wood e Suzanne Cusick, che ci ha aiutato con il nostro saggio e si occupa di Seicento italiano.

Quanti musicologi dichiarano il loro punto di vista «italiano, maschile ed eterosessuale»?
DD Spero nessuno. Nel caso vorrei conoscere quel pazzo. (ride)
ES Nessuno perché si considera un’ovvietà, ma è proprio tale ovvietà che crea la falsa impressione che tutti siano eterosessuali – e maschi: sono ancora troppo poche le musicologhe italiane che tirano in ballo il loro essere donne quando scrivono di musica. Ma la necessità di dichiarare di essere italiano ed omosessuale viene almeno per me dal fatto che vivo all’estero da otto anni, e quindi sono già costituzionalmente ‘diverso’, prima di tutto linguisticamente, e sappiamo tutti che linguaggio e identità, anche identità nazionale e sessuale, sono legati molto strettamente.

Il vostro articolo prende le mosse dalla discussione delle principali teorie queer su rapporto fra omosessualità ed opera. Queste teorie ricercano e indagano l’eco dell’omosessualità nella storia in quanto il fenomeno è sempre stato nascosto e marginalizzato. Potete farci alcuni esempi di lavoro in chiave queer?
ES Ce ne sono moltissimi, e ancora di più sono da scoprire. In termini di storia sociale, la questione dei ‘castrati’ è apertissima: troppo poco si sa della loro educazione, del rapporto con i loro maestri, di quelli che oggi chiameremmo i loro fan-club…
DD Non perché i castrati abbiano in sé qualche legame specifico con l’omosessualità, ma perché nelle culture antiche, sovvertendo la norma, mettono a nudo una sistema sociale e le sue ipocrisie.
ES Un altro esempio è la rappresentazione dell’amiciza strettissima e spesso esclusiva tra due donne o due uomini che nell’opera assume spesso caratteristiche omoerotiche, anche in una prospettiva strettamente storica, dalle coppie di amici nei libretti di Metastasio a Oreste e Pilade nell’Ifigenia in Tauride di Gluck, da Norma e Adaligisa nella Norma di Bellini a Carlo e Posa nel Don Carlo di Verdi. Attenzione, non diciamo che tutti gli amici e le amiche vanno a letto insieme, ma i casi-limite sono molti, e vanno discussi senza pudiche reticenze.
DD Bisogna però ammettere che l’indagine queer sull’opera scaturisce, come tutte le cose americane, da un fenomeno di attualità, ovvero l’attenzione che i gay di oggi hanno per l’opera, attenzione che si può spiegare in mille modi ma che tale rimane, e a volte rischia di essere ingombrante. Per me, che preferisco occuparmi di cose ‘vecchie’ è stato interessante osservare che, con i dovuti distinguo, anche nei secoli scorsi l’opera ha sempre instaurato un legame privilegiato con il pubblico gay, per quanto possa essere riconoscibile un ‘pubblico gay’ nel Seicento.

Come si indaga questo rapporto nel passato e oggi?
DD Non credo si possa prefigurare un metodo ad hoc. Direi soprattutto senza pregiudizi, per quanto si riesca ad esserne esenti. E non mi riferisco all’omofobia, ma al rischio di trasformare un punto di vista – come gay ma anche no, il mio in questo caso – nel migliore possibile. E magari credere che un ambito di ricerca, che è necessariamente limitato, sia l’unico che possa meritare interesse.
ES Per dire cosa si è detto e fatto finora e magari avanzare alcune idee abbiamo organizzato l’articolo in tre parti – se questo ti può sembrare un metodo – un piano teorico (perché il binomio opera-omosessualità? quali domande porre? e in che termini?), uno storico (quali forme ha preso questo rapporto nel passato?) e uno sociologico (quali forme ha nel presente?). La parte più difficile da scrivere è stata quella teorica, credo; quella più divertente senza dubbio quella sul presente (non capita spesso di poter discutere del «maschio petto villoso» di un controtenore su una rivista accademica!); ma il grosso del saggio è storico.

Sono state condotte altre indagini come la vostra in Italia o possiamo considerare il vostro articolo una ‘prima’?
ES In Italia le uniche indagini pubblicate che affrontino direttamente l’omosessualità sono di Davide. Si è chiacchierato semmai dei ‘vizi innominabili’ di alcuni compositori, librettisti e cantanti, ma sono appunto chiacchiere.

Come mai in Italia l’elaborazione di queer studies è allo stato embrionale?
DD Potrei liquidare la questione dicendo che la ricerca queer è un fenomeno geneticamente americano e come tale poco importabile. Le basi ideologiche sono le stesse del «pensiero debole» che in Italia ha avuto una certa fortuna. L’omosessualità invece rimane argomento di cui non vale la pena occuparsi. E che questa convinzione sia ancora validissima lo dimostra il fatto che i queer studies italiani sono un’imitazione del modello americano e non un rielaborazione in chiave gay delle dottrine del pensiero debole.
ES Direi anche per le medesime e molto complesse ragioni storiche e sociali per cui il movimento gay è quello che è. Ma fortunatamente la musicologia italiana ha un ruolo non secondario sulla scena accademica internazionale, soprattutto per quanto riguarda l’opera, ed è una delle prime nazioni europee a occuparsi di queer theory. E non è che la storia della letteratura e dell’arte siano avanti chilometri: non ce ne sono molti di studi critici di autori italiani sul rapporto tra arte e omosessualità in Leonardo da Vinci o Carlo Emilio Gadda, tanto per fare due nomi a caso.

Come è possibile indagare la storia dell’opera con «uno sguardo gay»?
ES Indagando la possibile presenza dell’omosessualità ed i suoi effetti tra chi crea l’opera (compositori librettisti impresari cantanti registi ecc.) e chi la consuma (principi aristocratici borghesi popolani ecc.), e nelle opere stesse, nel loro testo, nella loro musica, e nella loro messa in scena.
DD Ma poi, come potremmo non indagare l’opera diversamente, essendo gay? Si tratta semmai di acquisire consapevolezza della specificità del proprio modo di vedere le cose che, senza voler dettare regole, ha certo molto da insegnare.

Tra le possibili indagini che si possono condurre voi ipotizzate che ci sia un rapporto fra omosessualità e committenza musicale. Cosa aggiungono alla cultura gay ricerche di questo tipo?
DD Forse non aggiungono niente o forse chiariscono quanto furono ‘personali’ i rapporti di tipo gerarchico. L’interesse non è, come ci è stato rinfacciato, utile solo alla causa gay, ma mira a un’informazione storica la più completa e sfaccettata possibile.]
E’ vero che un campo di indagine nello studio del rapporto fra musica e omosessualità riguarda i gusti sessuali dei compositori? Quali compositori italiani rientrano, a vostro parere, in una sensibilità gay?
DD Vuoi farci fare outing? In realtà le liste sono sempre pericolose. Ti faccio un esempio. Ci sono voci che riferiscono dei divertimenti di Galuppi con Gian Gastone de’ Medici, e altre che lo descrivono severo padre di una sterminata famiglia di marmocchi. Io credo che Galuppi non sia omosessuale ma si sia tappato il naso (letteralmente visto che pare che il Medici si lavasse poco) e abbia accondisceso le voglie del Granprincipe per interesse professionale. Devo metterlo in lista oppure no? Altri hanno unito l’utile al dilettevole, Cesti, Ariosti, per esempio. Altri ancora lo hanno probabilmente taciuto anche a se stessi, come forse Cherubini. In questo secolo credo che siano dichiarati solo Bussotti e in parte Menotti. Certo è invece infinito l’elenco di quei compositori su cui al momento non è possibile dire nulla circa il loro privato. E se ci pensi un privato niente affatto marginale, quando si continuano a pubblicare biografie che ci raccontano a che ora preferiva alzarsi questo o quel compositore, cosa mangiava, quali scarpe preferiva.
ES Se si esce dall’Italia, un gruppo ormai identificato esiste: Händel, Cajkovskij, Ethel Smyth, Ravel, Poulenc, Britten, Tippett, Barber, Bernstein, per citare solo gli operisti… La sensibilità è però un’altra cosa, ovviamente. Quando Verdi riveste di splendide note la grande passione di POSA per Don Carlo riconosce anche se implicitamente una realtà socio-culturale, e quindi esibisce una sensibilità, se non proprio gay, certo attenta alla possibilità dell’omosessualità.

Nel vostro saggio arrivate ad affermare che anche l’appassionato eterosessuale di opera può riconoscere la componete omosessuale dell’opera stessa. In che senso? Quanto la sensibilità gay appartiene a tutti?
ES Tutto dipende da quanto le persone siano disposte ad aprirsi ad una sensibilità verso l’opera, ad un modo di ascoltare l’opera, che forse può essere gay, ma che non è in nessuno modo riservato esclusivamente agli omosessuali. Tutti gli appassionati d’opera hanno incontrato almeno una melochecca etero nelle loro peregrinazioni loggionistiche, e non tutti sono gay che non hanno capito di esserlo.
DD Di per sé lo stesso emozionarsi per l’opera è, come l’omosessualità, un comportamento antisociale. Chiedi a un adolescente cosa gli dicono i suoi compagni di scuola quando racconta della Traviata vista la sera prima. Deve essere gay quest’adolescente? No, eppure anche lui si sentirà un marziano.

Che orizzonti apre un saggio coraggioso come il vostro nella ricerca in campo musicale?
ES Speriamo di incoraggiare altri giovani musicologi italiani a continuare le ricerche, sia che si tratti di andare in polverosi archivi a scovare documenti sulla sessualità di chi ebbe a che fare con l’opera ma non solo, sia che si provi invece ad interpretare opere senza escludere a priori la possibilità di una lettura in chiave gay.
DD …e questo a prescindere dall’essere uno studioso gay o meno. Potrei dire che il vero traguardo è convincere chi gay non è a occuparsi di omosessualità, ma ammetto che sarebbe già molto che i musicologi gay, e sono tanti, scendessero in campo.

E’ possibile e opportuno ricostruire una storia del rapporto fra musica e omosessualità?
DD Se per storia intendi una successione di eventi slegati allora è già possibile e un po’ noi lo abbiamo fatto. Se invece intendi un procedere di idee allora siamo ancora lontani. Ma ciò non toglie che, come si può fare una storia dell’economia (che serve, se ci pensi, più alla storia dell’Uomo che a capire l’economia), allo stesso modo si può fare una storia del rapporto musica e omosessualità che non sarà certamente monodirezionale o priva di contraddizioni, ma molto ci potrà sipegare su chi siamo, gay o meno.
ES E’ necessario, ancor più che opportuno, perché non si comprende il presente (e quindi non lo si può cambiare) se non si conosce il passato. In questo senso un saggio come il nostro vuole avere anche un valore politico.]
Quale spazio avete dato nel vostro saggio all’ascoltatore gay di opera lirica?
ES Un largo spazio, nella parte conclusiva, quella sociologica. E’ forse la parte piu’ leggibile del saggio e crediamo possa interessare molto proprio agli appassionati di lirica, visto che si parla proprio di loro, cioè di noi.
DD Sono circa una decina di pagine sulle quaranta complessive, quindi molto, ma in effetti non abbastanza. Anzi secondo me le questioni veramente ancora irrisolte sono proprio quelle relative alle cosiddette opera queen o melochecche. D’altra parte qui la trattativa diventa improvvisamente generica e spesso tende a parlarsi addosso. Noi abbiamo fatto soprattutto un resoconto ragionato di quanto pubblicato finora non c’era lo spazio per imbastire un discorso approfondito. E forse anche noi non abbiamo ancore le idee chiare.

Come è stato accolto, in un’università asfittica come quella italiana, il saggio di due omosessuali dichiarati che discutono di omosessualità?
ES In privato bene, anche se con riserve ovviamente. Ma ci saranno reazioni pubbliche? Qualcuno raccoglierà la sfida e si dedicherà allo studio di opera e omosessualità? E se sì, come reagiranno colleghi e professori? Per ora posso dirti questo: ho uno studente a Oxford che sta scrivendo una tesi sulle implicazioni omoerotiche della comunità esclusivamente maschile dei Cavalieri del Graal nel Parsifal di Wagner, e i miei colleghi non hanno battuto ciglio quando si è trattato di approvare l’argomento in consiglio di facoltà. Come verrebbe accolto un tale argomento di tesi in Italia?
DD Il dato certo è che per ora l’articolo è stato pubblicato, e già questo è un successo. Delle reazioni è troppo presto per dire. L’articolo però è già stato discusso in un seminario dei dottorandi di musicologia a Cremona e mi sembra un primo successo. Sarà poi oggetto di una tavola rotonda del prossimo Colloquio Internazionale di Musicologia, un incontro che si svolge ogni anno a novembre all’Università di Bologna, e anche questo è un passo avanti per combattere l’indifferenza dall’interno.

Ma l’omosessualità può essere considerata davvero «un modo di cantare»?
DD Abbiamo tratto il titolo da una citazione di Koestenbaum che ci sembrava molto bella per dire cosa sia l’omosessualità che, come il cantare, prima che un modo di essere, e un modo di sentire e di esprimersi.
ES Perché negare alla poesia, al canto, la possibilità di spiegare il mondo meglio della prosa, del parlato? E perché non pensare all’omosessualità come ad un modo di modulare noi stessi, la nostra vita, il nostro corpo? E che cos’è l’opera se non un modo di modulare emozioni ed accadimenti, corpi ed anime?
(Pubblicato in “Babilonia”, maggio 2001, pp. 52-56)

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