Con la scusa del “plagio”

E’ in libreria Il processo Braibanti di Gabriele Ferluga edito da Zamorani . Il testo ricostruisce minuziosamente uno tra i più importanti, e meno conosciuti, scandali giudiziari omosessuali italiani. Ne parliamo con l’autore.

Aldo Braibanti - Foto Wikipedia

Nel 1968 Aldo Braibanti, un intellettuale di sinistra, ex partigiano, fu condannato a due anni di carcere per aver plagiato un giovane con cui intratteneva una relazione omosessuale. Peccato che il reato di plagio sia stato pronunciato, lungo la storia italiana, solo in quella circostanza! Cosa accadde realmente?
Ce lo racconta un giovane studioso, Gabriele Ferluga, che è riuscito, tra mille difficoltà, a ricostruire l’intricata vicenda pubblicando Il processo Braibanti. Ne parliamo assieme.

Lo scandalo Braibanti è stato uno dei più importanti scandali gay italiani. Come incominciò?

Siamo negli anni sessanta, in provincia di Piacenza. Aldo Braibanti, un intellettuale di sinistra già partigiano, conobbe Giovanni Sanfratello, di 19 anni e quindi minorenne per la legge in vigore all’epoca, con cui intrattenne una relazione profonda.
Giovanni, con l’aiuto di Braibanti, intendeva allontanarsi dalla famiglia e costruire la propria vita. I due si amavano e nell’intenzione di vivere insieme si trasferirono per un breve periodo a Firenze e poi definitivamente a Roma. Qui la famiglia Sanfratello si recò spesso per cercare di convincere Giovanni a rientrare a casa, inutilmente.

A questo punto incominciarono i guai…

In effetti – siamo nel 1964 – il padre di Giovanni, Ippolito Sanfratello, pare sia “illuminato” da un suo amico sacerdote sull natura del rapporto che intercorreva tra Braibanti e il figlio e denunciò Braibanti per plagio, un reato creato dal legislatore fascista e rimasto unico nel quadro giuridico europeo.

In cosa consiste il reato di plagio?

L’articolo 603 del Codice Penale (che poi la Corte Costituzionale ha abrogato come illegittimo nel 1981) puniva chi sottoponeva qualcuno al proprio potere in modo da ridurlo in totale stato di soggezione.
Fino a Braibanti però nessuna sentenza di condanna era stata mai pronunciata sulla base di quella norma “fumosa”.

Cosa accadde dopo la denuncia?

Il padre del giovane, insieme ad alcuni altri membri della famiglia, si presentarono alla pensione dove la coppia viveva e rapì il giovane, portandolo con la forza in manicomio.
Là, Giovanni, restò circa un anno, inchiodato alla diagnosi di “schizofrenia” e sottoposto a tutte le “terapie” previste all’epoca, cioè elettroshock e coma insulinici.
Il procuratore – che tenne aperta l’inchiesta per quattro lunghi anni, nonostante a norma di legge non potesse farlo – fece arrestare Braibanti verso la fine del 1967. Il processo fu una sfilata incredibile di personaggi legati alla destra, talvolta estrema, come nel caso del perito nominato dalla Corte Aldo Semerari.
Giovanni non accusò mai Aldo Braibanti di plagio e anzi cercò di difenderlo sostenendo che aveva avuto con lui rapporti sessuali perché gli piacevano.
Il castello accusatorio non crollò, ma si rafforzò. Si disse che evidentemente Giovanni doveva essere ancora sotto l’influenza di Braibanti e questo provava l’avvenuto plagio! La vicenda suscitò grande rumore e se ne occupò la stampa nazionale. Il linciaggio, cominciato nell’aula del tribunale, continuò sulle pagine dei giornali.

Aldo Braibanti, come accennavi prima, fu condannato.

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Lo condannarono a sette anni di carcere poi ridotti a due in appello con la successiva conferma della Cassazione. Poi il silenzio e l’oblio insabbiarono la vicenda. Braibanti uscì di prigione col marchio di “professore plagiatore”, etichetta che gli è rimasta appiccicata ancora oggi e che sarebbe tempo, io credo, di levare.
Quale è, a tuo parere, la pagina più nera di questa vicenda?
La solitudine nella quale fu abbandonato Aldo Braibanti, bersaglio degli attacchi omofobi più insultanti. Qualche vagito di solidarietà venne da alcuni intellettuali tra cui Pasolini, Morante, Maraini, Moravia, anche se troppo tardi, o dai radicali. Per il resto nulla, ed è evidente che il motivo d’imbarazzo nel difendere Braibanti proveniva proprio dal carattere omosessuale della vicenda.

Fu vera discriminazione? Quali i pregiudizi della corte che lo ha giudicato?

Gli atti del processo, in particolare la sentenza, sono una vera miniera di stereotipi e di pregiudizi antiomosessuali correnti. Ce n’è un po’ per tutti i gusti: omosessualità come misoginia, metafora della corruzione di giovani anime innocenti da parte di un adulto pervertito, distruttore dell’ordine sociale, effeminato, “pseudoartista” (come ebbe a dire il Pubblico ministero Loiacono) e via di questo passo. Nulla fu risparmiato pur di condannare quest’uomo “omosessualmente intellettuale”, come si disse.

Nemmeno la sinistra difesa Braibanti?

L’unica forza politica, ancora non presente in Parlamento, che volantinò al tribunale, condusse in proprio una piccola ma preziosa controinchiesta sul caso e tentò di tenere vivo il dibattito intorno alla vicenda, fu il Partito Radicale, con Marco Pannella in prima linea.
La destra invece si lanciò in una campagna sguaiata per dare finalmente una buona lezione pubblica agli omosessuali e ci fu anche chi ne approfittò per chiedere un adeguamento della legislazione affinché l’omosessualità fosse punita a norma di legge, ma la sinistra non si comportò certo meglio.
Le mancava totalmente una cultura della sessualità. Il PCI era fermo su posizioni bacchettone, l’omosessualità era “degenerazione borghese”. Per un partito simile era assolutamente impensabile difendere un omosessuale in quanto tale, fosse stato pure un suo ex dirigente.
L’Unità scrisse addirittura, in una delle prime cronache del processo, che Braibanti era stato “iscritto a un partito operaio”, formula di una ipocrisia più che evidente. Gli scarsi sostegni che vennero a Braibanti dalla sinistra, furono quelli di qualche intellettuale e nemmeno tutti, visto che uno scrittore, sollecitato da Pasolini a prendere una posizione pubblica in difesa dell’imputato, gli rispose: “Io non penso a Braibanti, io penso al Vietnam”.

Hai incontrato Braibanti. La vicenda lo ha distrutto?

Distrutto, no. Braibanti non ha mai chiesto nulla e non ha mai sfruttato quel processo (come pure, in anni più recenti, avrebbe potuto fare) per dipingersi come una vittima.
Quel processo lo ha marchiato per sempre e il suo nome è oggi legato non più a quello che dice o che fa (perché Braibanti continua a scrivere e a creare: è appena uscita una raccolta di sue poesie per le edizioni Empirìa, Frammento frammenti) ma perché, nella testa di molti, è ancora il “plagiatore”.
Attualmente vive con la pensione sociale e, dal momento che non è stata ottenuta nemmeno la revisione del processo dopo l’abrogazione dell’articolo 603, un Comitato Pro-Braibanti chiede che gli venga assegnato almeno il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli per gli artisti in difficoltà. Su questo un’interrogazione firmata dall’Onorevole Franco Grillini e numerosi altri deputati giace, indiscussa, alla Camera. Si spera sempre in tempi politicamente e socialmente migliori.

Come mai anche il movimento gay dimenticò Braibanti?

Negli anni, a parte la rivista Lambda, il movimento gay non si è per niente occupato di quella vicenda.
In questo stupefacente oblio ha pesato certamente, almeno in parte, anche l’atteggiamento di Braibanti che – pur legittimamente – tende ad interpretare il suo processo come un attacco alla cultura di sinistra più che all’omosessualità, rifiutando così di diventare un’ “icona” omosessuale, così come il simbolo delle battaglie radicali, così come tante altre cose. Braibanti non si è mai lasciato definire chiaramente, né in termini politici, né in termini artistici e nemmeno nel campo sessuale. Dopo, certo, è intervenuta anche la mancanza di memoria, nostro male cronico.

Qual’è l’interesse oggi di questa vicenda? Perchè hai dedicato anni di lavoro a questo scandalo?

Un omosessuale – anzi due, Braibanti e Sanfratello – vengono mandati al macello perché si amano. L’elettroshock, la minaccia (poi messa in pratica) del carcere, la persecuzione, l’insulto, il dileggio, infine l’emarginazione di Braibanti.
E’ stato uno dei casi giudiziari di repressione antiomosessuale più importanti del dopoguerra e noi gay dovremmo lasciare che a parlarne siano ancora personaggi del calibro di Ombretta Fumagalli Carulli (invitata da Curzi nel ’96 nel corso di una trasmissione ricostruttiva del caso, su Rai Uno)?
All’interpretazione di quel che era successo mancava un punto di vista gay. Quella storia ci parla di come potevano vivere negli anni sessanta due omosessuali che intendevano costruire insieme la loro vita e di quali violente resistenze (trasversali, diremmo oggi, a tutte le tendenze culturali e politiche) dovevano affrontare. (pubblicato originariamente in “Pride”, aprile 2004, pp.40-41).

Stefano Bolognini ⋅

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