1727, un curioso caso di Sodomia a Bologna

Due ventenni vengono arrestati a Bologna nel 1727 per sodomia. Il caso, raccontato minuziosamente dalle carte d’epoca, permette di intravedere la sotto-cultura gay di ieri.


Le carceri del Torrone a Bologna, dove i giovani sodomiti sono stati rinchiusi, riprodotte in una cartolina del 1890.

«Incominciò a baciarlo e sbottonargli li calzoni calandoglieli e fattolo abbassare…» Questa frase non è tratta dal copione, non ancora corretto, di un film porno o da un romanzo d’appendice, bensì, dalle deposizioni di un ventenne arrestato a Bologna nel 1727 per sodomia  1.
Tutto incomincia il 23 aprile quando Giuseppe Scagliola si presenta al tribunale criminale pontificio del Torrone e dichiara «per diligenza» che Pellegrino Torri «è sodomita» e frequenta Domenico della Casa, Antonio Mantovani e Leopoldo Taruffi.
Il cardinale «informato delle deposizioni «ordinò la carcerazione dei medesimi». Spettava alla Chiesa la normalizzazione sessuale della società e la sodomia (in buona compagnia con “peccatucci” che oggi consideriamo veniali) non era contemplata nella normalità.
Il 27 aprile è interrogato dai giudici Leopoldo Taruffi, studente di chirurgia ventenne. Incalzato dalle domande e «pensatovi bene sopra» ipotizza che il suo arresto sia avvenuta perché «gli era stato fatto male di dietro». Male? Molto male se pensiamo che ricorda di essere stato «corrotto per di dietro diverse volte» senza troppi preliminari come lui stesso descrive in dettaglio: «introdotto in una stanza terrena presso un letto e [un ricco signore «innominato»] incominciò a bagiarlo e sbottonargli li calzoni calandoglieli e fattolo abbassare ed appoggiatolo con le mani e colla testa al letto gli scoprì il culo, e calatisi anch’esso li calzoni gli appuntò il membro dritto e duro nel buco del culo […] e cominciò a spingere che lo fece entrare dentro e ne sentì dolore […] e sentì che gli usciva il seme bagnandolo di robba calda […] Ebbe in regalo mezzo ducato e l’invito di tornare fra 15 giorni; che così fece più volte». Poi racconta altre «turpi cose» e dice di essere stato «invitato da Matteo (Ricci) a casa sua, vi andò, e là accaddero le stesse scene».
Secondo Ugo Zuccarello, giovane storico bolognese, che recentemente ha pubblicato un saggio intitolato «La sodomia al tribunale bolognese del torrone tra XVI e XVII secolo» per la prestigiosa rivista «Storia e Società» il rapporto tra lo studente e il ricco signore seguiva una prassi consolidata. All’epoca i rapporti tra uomini seguivano uno «schema tipo» che «oltre alla diversa età [prevedeva] anche un ruolo diverso dei partners, per cui il più giovane era di solito il patiens e il più vecchio l’agens».
Il «rapporto sessuale» tra i due era «preceduto e seguito da qualche forma di seduzione o corteggiamento messa in atto da parte dell’agens, che promette dei favori o una ricompensa al giovane che avvicina e col quale instaura una più o meno breve consuetudine, non limitandosi alla consumazione veloce di un singolo atto sessuale e giungendo a oltre a configurare una vera e propria relazione».
Il rapporto tra Ricci e Taruffi entrambi ventenni invece non è identificabile in questo schema tipo. Matteo Ricci confessa, il 26 maggio, di avere avuto un solo rapporto con il Taruffi «in un casa in via dei Falegnami [ivi condotto dal Taruffi] per giuocare a farina nell’andito da basso al buio e cominciassimo a toccarci l’uno all’altro et io gli sbottonai li calzoni e presi il suo membro in mano; et esso posta la sua mano nelli miei calzoni, tirò fuori il membro mio e dopo esserci toccati un poco io gli scoprii il culo, che esso medesimo da sé si alzò la camicia, dopo essersi calato li calzoni et io gli appuntai il mio membro nel buco del suo culo, ma non lo feci entrar dentro e solo tenendolo così appuntato al detto bugo me lo menai con la mano mia, sinchè mi corrompei et uscì il seme, e nello stesso tempo detto Taruffi si menò il membro suo […] Dopo di che il Taruffi tornò sopra in casa ed io andai a casa mia; ove una volta andato il medesimo vennero agli stessi atti come sopra ma poi non ebbero altra confidenza». I questo caso si tratta di un rapporto senza implicazioni sentimentali.
Gli interrogatori erano condotti scrupolosamente e per arrivare a giudicare colpevole un imputato era assolutamente necessario che tutte le prove e le dichiarazioni combaciassero tra loro.
Come provare che un individuo praticasse la sodomia? Il referto di una visita medica subita dal Taruffi non lascia spazio per alcun dubbio: due chirurgi bolognesi «aperte le natiche colle mani viddero e riconobbero avere [Leopoldo Taruffi] l’orificio dell’ano dilatato per non esservi le solite crepe naturali; e trovato nella parte sinistra dell’orificio una piccola escrescenza di carne che è un principio di condiloma o sia una punta in cresta, segno dell’introduzione di istromento duro come farebbe un pezzo di legno e un membro virile». Questa pratica di “controllo” ebbe notevole successo in ambito giuridico ed è caduta in disuso solo da pochi decenni. Era, infatti utilizzata dai fascisti per mandare al confino gli omosessuali italiani.
Anche nell’ottocento “l’esplorazione rettale” poteva offrire la prova di «sodomia». Tardieu nel testo del 1896 I delitti della libidine, al capitolo tre, ci informa che i segni della pederastia possono essere ricercati nello «stato della natiche», nella «deformazione infundibolare dell’ano», nel «rilassamento dello sfintere» e in altro che tralascio.
Qualora le testimonianze non fossero chiare si procedeva o con la tortura o con un faccia a faccia tra gli inquisiti. In questo processo, per esempio, le dichiarazioni del Taruffi e del Ricci non combaciano. Il primo sostiene di aver avuto più rapporti sessuali con il secondo mentre l’altro ne ricorda soltanto uno. Il faccia a faccia tra i due non risolve la questione; Taruffi dice che «per la prima volta Matteo qui presente mi buzzerò [inculò] nell’andito della casa d’Antonio Cavedagna […] e la seconda nell’andito di casa sua e forse non più». Forse…
Taruffi, nel suo primo interrogatorio, chiamò in causa come sodomita anche Carlo Cavedagna «chirurgo e barbiere abitante in contrada della Canapa» che fu arrestato il 9 maggio. Lo stesso sottoposto ad interrogatorio si difende con maggior enfasi dei primi due rei confessi. Nega «assolutamente ogni rapporto con chichessia che senta d’infermità e di turpitudine» e dice di non conoscere il Ricci. Ricorda soltanto di essere stato ad una commedia con il Taruffi. Il fatto però costituiva un’eccezione, perché Carlo generalmente alle commedie andava accompagnato da «sua madre e sua sorella». Sottoposto ad un successivo interrogatorio, dopo solo sei giorni di carcere rivede, in parte, le sue posizioni e confessa di aver presentato personalmente il Taruffi all’Innominato e di sapere che il Taruffi è un sodomita. Dopo qualche tempo vengono sentiti due testimoni che conoscono gli arrestati.
Il 30 maggio Matteo Varaldi, ciabattino, dichiara ai giudici che «sia il Taruffi quando il Cavedagna erano da tutti svigliacciati (trattati da vigliacchi) e da buggerioni [culattoni]» in quanto «erano note le loro turpitudini» e addita «fra gli altri a testimone di ciò […] il pallaro». Gli stessi, sempre secondo il testimone, amavano le «vetture prese a nolo [e i] cavalli […] per li quali divertimenti […] spendevano il danaro guadagnato col loro corpo sì nefandamente».
Il pallaro gestiva le scommesse del gioco del pallone [«si praticava circa come si farebbe coi bigliardi così il pallonaro per una puntata come per molte percepiva dodici baiocchi che venivano pagati da chi perdeva»] nella sala del podestà dichiara ai giudici di conoscere Carlo Cavedagna da quattro anni e che era sempre munito di denaro «ed in quanto al Taruffi aggiunge che molti burlavasi di lui chiamandolo dottore, busione, bardasione».
Anche nel ‘700 era in uso apostrofare gli omosessuali. Il fatto che la gente sapesse ben individuare i «buzzarioni [culattoni]» lascia lo spazio per alcune considerazioni.
A Bologna esistevano, come oggi, un gran numero di «sodomiti» tanto che, secondo Zuccarello «agli occhi dei bolognesi la sodomia non appare come qualcosa di portentoso né è causa di particolare sgomento». Supporta questa tesi il numero esiguo di processi per sodomia dal 1540 al 1727 che si attesta intorno ad una ventina. Esisteva, sempre secondo il giovane storico, una «sottocultura sodomitica bolognese» fatta «di modi di espressione e di relazione, di valorizzazioni, di modi di vita e quindi di autopercezione e di riconoscimento… che costituisce il bagaglio condiviso di un gruppo sociale costretto all clandestinità».
Proseguendo con il processo il 3 giugno ha luogo un faccia a faccia tra Cavedagna e Taruffi: «così l’uno sostiene il detto, l’altro lo nega, dei due il Cavedagna però è quello che mostra avere più ingegno e furbizia». Non rimane ai giudici che la tortura.
Il 9 maggio il Taruffi sottoposto alla corda grida tutta la sua sofferenza per il meschino trattamento: «Oh Gesù, Oh Gesù, Sant’Antonio mi moro» e ribadisce, tra i lamenti, quanto confessato in precedenza. «In sostanza in né miei esami fu detto che circa un anno e mezzo fa in tempo d’Inverno Carlo Cavedagna mi condusse da quello che lui sa, dicendomi voleva andare a prendere un poco di quattrini e che ne avrei avuto anco io se gli menavo il membro, che andatovi mi sodomitò nel modo che fu detto nel mio esame e mi diede mezzo ducato vi ritornai poi cinque o sei altre volte, e sempre mi diede mezzo ducato […] mi condusse ancora […] da quell’altro che ho nominato, e mi disse, che voleva farsi menare l’uccello, e due o tre volte mi condusse al casino [casa di campagna] e mi sodomitò. Matteo (Ricci il campanaro) qui presente mi ha sodomitato due volte una volta nell’andito della casa di Cavedagna et un’altra volta nell’andito di casa sua, che me lo fece entrare un poco dentro il culo, ma non posso dire se si corrompesse dentro e fuori […] e questa è la verità in tutto e per tutto; calatemi per l’amore di Dio che vengo meno».
È di moda tra gli storici una sorta di catto-revisionismo che nega l’intransigenza e la violenza dei processi contro i peccati sessuali. Alcuni storici chiamano i carnefici «figli del loro tempo» quasi che il vivere in determinate condizioni culturali e morali sia una scusante al male perpetrato. Il male ha scusanti? Quelle grida non pretendono, a mio parere, scuse postume, idiote e inutili, ma chiedono soltanto di finirla con interpretazioni ai limiti del ridicolo.
Dopo la tortura la parola passa alla difesa. L’avocato di «Taruffi; Cavedagna e Ricci» punta sulle «contraddizioni del primo le quali favoriscono i secondi nella loro difesa. È detto della sua minorile età per cui è da applicarsi o nulla o ben poca condanna anche come confesso. Non provato il lenocinio a danno del secondo» e in «quando al terzo (Ricci) non essere che un principio di sodomia non consumata […] e tutt’al più da essere mandato in bando».
Alla fine del processo nessuno fu condannato alla pena capitale. Probabilmente le barbarie perpetrate tra cinquecento e seicento dal tribunale del Torrone incominciavano a pesare sulla coscienza di qualcuno. I tre furono condannati al carcere. Dopo sette anni Taruffi ottenne la grazia dal cardinale legato, Cavedagna ottenne la grazie dopo cinque anni e Matteo Ricci scontò una pena di cinque anni.
Esistono alcuni punti oscuri della sentenza. Ad esempio Pellegrino Torri, Domenico della Casa, e Antonio Mantovani non compaiono negli atti successivi del processo. Leggendo gli interrogatori si capisce che l’identificazione dell’Innominato sarebbe molto semplice. È ipotizzabile che questi uomini fossero ricchi e potenti e , in quanto tali, intoccabili, oppure che come dice lo Zuccarello che fossero uomini di Chiesa: «Il coinvolgimento del clero nei processi per sodomia ci pone davanti anche un’altra questione, cioè quella della sua sostanziale impunità. I giudici del Torrone […] non condannarono mia i chierici inquisiti per sodomia, anche quando contro di loro siano stati raccolti indizi gravi e numerosi».
Studi ulteriori potrebbero evidenziare elementi di novità che fino ad ora non sono emersi.
Studi senza i quali gli storici potranno continuare a sostenere liberamente come il Famoso italo americano Jhon Tedeschi che dice: «Non è un’esagerazione affermare che il Sant’Uffizio fu in certi casi un pioniere della riforma giudiziaria. L’avvocato difensore era parte integrante della sua procedura […], nei tribunali dell’Inquisizione l’imputato riceveva una copia autenticata dell’intero processo […] e disponeva di un ragionevole lasso di tempo per preparare la propria replica» e ancora si utilizzavano «il convento o l’abitazione come luoghi prevalenti in cui scontare una pena detentiva; l’importanza attribuita alle circostanze attenuanti e alla consulenza di specialisti nel campo del diritto e della teologia [e della medicina?]; la relativa mitezza delle sentenze dei processi per stregoneria; il gran numero di casi che si concludevano con abiure sulle gradinate delle chiese; la rarità del ricorso alla pena capitale». Per la cronaca, il suo testo del tedeschi Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana è pubblicato dalla casa editrice cattolica Vita e Pensiero.

Ringrazio Massimo Prevideprato per avermi segnalato la sentenza e Ugo Zuccarello, che ha raccolto nel saggio “La sodomia al tribunale bolognese del Torrone tra XVI e XVII secolo” pubblicato in “Società e Storia” nel 2000 il suo lavoro, per i preziosi consigli che mi ha offerto. (pubblicato originariamente in “Babilonia” con il titolo  Oh Gesù, Oh Gesù, Sant’Antonio mi moro nel gennaio 2001)

  1. I brani della sentenza riportati in questo articolo sono inediti e tratti da un estratto ottocentesco degli atti di quel processo per sodomia. L’estratto, manoscritto, è conservato presso la Collezione d’Arte Cassa di Risparmio di Bologna al Fondo Ambrosini segnatura C.III op54 3/62. È possibile che la sentenza originaria sia conservata presso l’Archivio di Stato di Bologna nel fondo del Torrone e che possa gettare luce su alcuni punti oscuri che ho segnalato nell’articolo.

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